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Compagnia teatrale assaiASAI, una “comunità di pratica”

Pubblicato il 14 Gennaio 2021

Silvia Stefani, antropologa e attrice di assaiASAI, racconta il lavoro umano e artistico della compagnia teatrale comunitaria che, nel 2022, festeggia 11 anni di attività.

Quando penso ai primi giorni di quarantena fatico a ricordarmi cosa ho provato. Mi sentivo elettrizzata e preoccupata al tempo stesso. Un misto tra l’eccitazione che da bambina provavo quando la scuola chiudeva a causa di una forte nevicata e il timore di una minaccia incombente, di cui non riuscivo a prevedere le dimensioni. Concretamente stavo in casa, lavorando come già facevo spesso prima della pandemia dalla mia camera da letto. Facevo telefonate a parenti e amici che mi lasciavano frastornata: ognuno stava vivendo quei primi giorni di quarantena in modo diverso, con angoscia, scetticismo, allarme e io non capivo cosa provavo. In quel periodo, il 12 marzo precisamente, sono stata aggiunta da una compagna di teatro in un gruppo WhatsApp. Il gruppo nasceva per costruire un video di auguri collettivo per una ragazza della compagnia che compiva gli anni proprio in quella prima fase di quarantena. L’anno scorso avevamo festeggiato insieme il suo compleanno, improvvisandoci ballerini sulle note vivaci di musiche arabe, in un locale vicino alla scuola dove ci troviamo per le prove settimanali. Quel ricordo aveva un sapore un po’ amaro nella città deserta in cui eravamo rinchiusi a un anno di distanza. Io e il mio compagno abbiamo registrato un breve video con le percussioni del pandeiro in sottofondo e lo abbiamo inviato su WhatsApp. Nel gruppo, nel giro di pochi minuti, hanno iniziato ad apparire i video degli altri compagni di teatro. Li ho guardati, uno dopo l’altro. Due teatranti vicini di casa facevano gli auguri dai loro ballatoi, un altro si avventurava in un lungo discorso mentre in sottofondo passava una delle sue musiche preferite, altri sorridevano e mandavano baci dalle loro case, camere o balconi. Quello è stato il primo momento della quarantena in cui mi sono emozionata. Vedere le facce di tutti i compagni e le compagne di teatro, vederli così diversi tra loro, riconoscere le peculiarità di ognuno, dolci, buffi, imprevedibili, mi ha colpito. Nell’ovatta in cui mi sembrava di essere immersa in quei giorni mi ricordo bene cosa ho provato vedendo quei video: ho sentito la criticità del momento che stavamo vivendo, la consapevolezza che molti dei miei compagni di teatro avrebbero dovuto affrontare difficoltà molto serie, e, al tempo stesso, ho capito che proprio quel gruppo sarebbe stato una risorsa fondamentale per attraversarle. Non saremmo mai stati isolati, avremmo continuato, in qualche modo, a essere parte di una comunità durante la pandemia.

E questo sta succedendo. Come la nostra regista, Paola Cereda, ci ha fatto notare fin dalla “fase uno”, nel discorso pubblico ci sono delle incongruenze. Quello che il governo e le istituzioni ci stanno chiedendo per tutelare la salute collettiva è un distanziamento fisico, non sociale. Ci si chiede di rinunciare a una parte importanti delle relazioni – il contatto fisico, gli abbracci, la vicinanza dei corpi – non alle relazioni. Proprio le relazioni, quelle personali che si sono create negli anni tra singoli teatranti e quelle collettive, legate al sentirsi parte di un gruppo, sono state una risorsa fondamentale per affrontare le difficoltà diverse che questa pandemia ha posto di fronte a ognuno della compagnia. Per capire quello che abbiamo sperimentato durante questo periodo è necessario però fare una premessa sul metodo di lavoro sviluppato negli anni all’interno della nostra compagnia di teatro integrato.

AssaiASAI può essere considerata una “comunità di pratica”. Etienne Wenger (2006) ha elaborato questo concetto per analizzare l’apprendimento come un processo di partecipazione sociale. Secondo l’autrice, l’apprendimento emerge dalla combinazione tra il fare e la costruzione di appartenenza, all’interno di gruppi che lei chiama appunto “comunità di pratica”. La pratica, il fare artistico sono l’elemento a partire dal quale si sviluppano le relazioni all’interno della nostra compagnia di teatro. L’arte teatrale e la costruzione collettiva degli spettacoli sono l’obiettivo – l’impresa comune per riprendere l’analisi di Wenger – che ci permette di riconoscerci come collettività. Richard Sennett inizia il suo testo Insieme raccontando la sua esperienza da bambino nella Hull House in un quartiere popolare di Chicago, un vero e proprio “laboratorio di collaborazione” in cui i giovani del quartiere divisi da conflitti razzisti e da vissuti di estremo disagio e povertà beneficiavano di spazi di tregua, costruendo relazioni serene. Sennett (2012) evidenzia come le diversità e i conflitti venivano risolti, più che nel semplice stare insieme, nel “fare insieme una cosa difficile”, che nella Hull House corrispondeva a suonare in un’orchestra. La serenità derivava secondo il sociologo proprio dall’essere impegnati in un compito difficile e coordinato e nel poter costruire relazioni collaborative al fine di raggiungere un obiettivo comune ambizioso.

Analogamente, nella nostra esperienza la qualità del lavoro artistico è un elemento fondamentale: si rintraccia nella sperimentazione di nuove tecniche artistiche e nella crescente difficoltà degli spettacoli portati in scena negli ultimi anni, così come nella richiesta che ogni attore e ogni attrice sfidi i propri limiti e migliori la qualità della propria partecipazione. Spesso nei contesti di inclusione sociale che coinvolgono persone considerate “svantaggiate” per diverse ragioni, – portatrici di disabilità o malattia mentale, migranti – si adottano esperienze artistiche, teatrali, musicali come pretesti per costruire la relazione, senza una reale attenzione alla qualità del prodotto finito. Nel metodo della compagnia assaiASAI il teatro non è un mezzo, ma è a sua volta un fine. Coerentemente con le riflessioni di Sennett, crediamo che la qualità stessa del nostro fare insieme, del prodotto artistico che insieme creiamo durante gli incontri settimanali e che portiamo in scena, sia fondamentale per la qualità delle relazioni e degli apprendimenti che nascono nel laboratorio stesso.

La centralità del fare insieme apre una seconda riflessione legata al concetto di comunità di pratica. Molti membri della compagnia nella loro vita quotidiana si trova spesso ridotte a un’identità schiacciata su un singolo aspetto della loro persona. Disabili, migranti, psichiatrici. Un’unica componente di una personalità sfaccettata, portatrice di una storia articolata e ricca di elementi, diventa preponderante e ipervisibile, andando a occultare il resto. L’appartenenza minoritaria spesso si impone come un insieme rigido di aspettative e pregiudizi nei rapporti interpersonali. Per esempio, la disabilità rappresenta spesso il primo elemento attraverso cui “vediamo” una persona e incide in maniera profonda sul modo con cui ci relazioniamo con lei e cosa ci aspettiamo da lei. È frequente che gli sconosciuti per strada tocchino le persone con disabilità fisiche, che si rivolgano loro con toni infantilizzanti e di compatimento, incastrandole così in un ruolo non richiesto di “vittima”. Ce lo racconta nel gruppo di teatro Sara, che nell’ultimo spettacolo dice dal palco: “Ma tu non credere che chi non cammina è scemo!” con una fierezza (e una rabbia forse) che non sempre siamo capaci di ascoltare. Nella compagnia, la missione artistica comune diventa invece il medium attraverso cui costruiamo le relazioni. Le appartenenze categoriche – disabile, migrante, educatore, professore – sfumano nel fare comune, in cui ci classifichiamo e riconosciamo in primo luogo in quanto alleati nella costruzione di uno spettacolo. In questo modo i partecipanti sono più liberi dalle etichette predefinite a priori e si creano le occasioni e lo spazio perché emergano altri aspetti di sé, della personalità e della quotidianità. La comunità di pratica costituita dalla compagnia diventa così uno spazio di apprendimento. Apprendimento sia prettamente tecnico-artistico, sia di meta-competenze: la capacità di collaborare, di sviluppare confronti dialogici, la possibilità di apprezzare e riconoscere le differenze senza rimanere imbrigliati in esse. L’eterogeneità del gruppo, in termini di età, (dis)abilità, provenienza, livello di istruzione, professione, fa sì che potenzialmente chiunque possa entrarne a far parte e, nelle nostre città, sempre più funzionanti all’interno di cerchie sociali omogenee, diventa uno spazio prezioso di eterogeneità sociale.

Un ultimo elemento che caratterizza il metodo è la “cura”. Cura reciproca dei componenti del gruppo, senza direzioni prestabilite: siamo tutte e tutti sia beneficiari che promotori di piccoli atti di cura verso gli altri. Questa dimensione fa sì che molti partecipanti, per esempio, abbiano il piacere di condividere con il gruppo i propri piccoli successi e sogni, per festeggiarli insieme, ma anche i momenti di difficoltà, per cercare un sostegno. La cura è anche però rivolta alla gestione stessa del laboratorio teatrale e degli spettacoli. Negli anni, non senza difficoltà, la regista ha cercato di condividere la responsabilità della gestione della compagnia con il gruppo stesso. Questa responsabilizzazione collettiva si concretizza in azioni sia più direttamente “logistiche” – ad esempio l’organizzazione delle macchine per spostarci nelle trasferte – sia “artistiche”, come la scrittura di un pezzo dello spettacolo. Negli anni alcuni componenti del laboratorio hanno assunto dei ruoli di “responsabilità” in maniera più ufficiale all’interno della compagnia. Questa strategia non è stata sempre semplice: richiede, infatti, di assumere un ruolo di gestione e al tempo stesso di assorbire lo stile proposto di condivisione della responsabilità e di collaborazione partecipativa.

Questi sono solo alcuni degli elementi del metodo elaborato negli anni da assaiASAI, che nel periodo della pandemia ha dimostrato di aver contribuito alla creazione di un gruppo resiliente, capace di adattarsi per fronteggiare il cambiamento. La regia della compagnia, già durante la prima settimana di lockdown, ha elaborato una modalità per mantenere in essere il funzionamento del gruppo. Se la pratica, il fare, come descritto, è la base e il collante del nostro stare insieme, questo fare è stato reinventato e mediato tramite la rete. Il gruppo chiuso su Facebook, fino ad allora usato in maniera saltuaria per condividere informazioni o a scopo ludico, è diventato la nostra piattaforma di lavoro. A cadenza settimanale la regista ha inviato al gruppo un compito da svolgere a cui era necessario rispondere postando il materiale direttamente sulla pagina FB. L’appuntamento settimanale, mantenuto di mercoledì, giorno in cui ci riunivamo per il laboratorio, ci ha aiutato a scandire questo tempo sospeso, che per molte persone del gruppo ha significato anche la sospensione delle progettualità educativa che li riguarda o dei processi di regolarizzazione del loro status giuridico precario. I post che di giorno in giorno i compagni pubblicavano in risposta al compito settimanale hanno avuto la capacità di fungere da “sostituti” virtuali, leggendoli siamo riusciti a sentire la vicinanza e la presenza del gruppo, seppur mediante la rete.

Questo contributo ha voluto ripercorrere alcuni degli apprendimenti elaborati negli anni dalla compagnia assaiASAI e come questi hanno portato a costruire una comunità di pratica coesa, flessibile e aperta, capace di re-immaginarsi e mantenersi vitale durante un periodo che pone difficoltà e restrizioni inedite come quello che stiamo vivendo. Crediamo che la cultura, l’arte e le relazioni siano ingredienti fondamentali per uscire dalle crisi, per ricostruire la fiducia negli altri e nel futuro. Arjun Appadurai (2011), un antropologo di origine indiana che ha lavorato a lungo con gli abitanti degli slum di Mumbai, ha definito il futuro come una capacità culturale, che va costruita e allenata collettivamente. Appadurai ritiene che la cultura sia un terreno di elaborazione collettiva in cui si esprimono e rappresentano futuri possibili. Alla luce di quanto detto, la compagnia assaiASAI si rivela come molto di più di un laboratorio teatrale: è un laboratorio in cui fare cultura, sperimentare nuove forme di collaborazione e di cura reciproca, e costruire insieme futuri possibili.

A cura di Silvia Stefani, antropologa e attrice della compagnia teatrale assaiASAI.
Il presente articolo è tratto dalla pubblicazione FARE INSIEME UNA COSA DIFFICILE 

 

BIBLIOGRAFIA
Appadurai A. (2011), Le aspirazioni nutrono la democrazia, et al./edizioni, Milano.
Mauss M. (2002), Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino; 1924, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétes archaique.
Sennett R. (2012), Insieme. Rituali, piaceri e politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano.
Wenger E. (2006), Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaello Cortina, 2006 Milano.

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