TUTOR di Giustizia riparativa. Un’esperienza che trasforma
Pubblicato il 4 Maggio 2020
I tutor di Giustizia riparativa accompagnano i minorenni autori di reato e le rispettive famiglie nei percorsi di riparazione. I tutor sono figure fondamentali, in formazione e confronto continui all’interno di una equipe allargata.
Abbiamo chiesto ad alcune volontarie di ASAI di raccontarci parte della propria esperienza come tutor, aggiungendo delle riflessioni sul concetto di giustizia e sull’importanza della prevenzione dei reati attraverso percorsi di sensibilizzazione nelle scuole.
ANNA TREVES RACCONTA… “PENSO DI NON ESSERE ALL’ALTEZZA, POI MI BUTTO”
Un giorno di settembre di quattro anni fa entro in ASAI. Desidero fare la volontaria e parlo con Riccardo, storico educatore dell’associazione. Dopo un lungo colloquio, mi propone di far parte del gruppo di Giustizia riparativa come tutor.
Rifletto, mi informo, penso di non essere all’altezza, poi mi butto. Incomincio a conoscere il gruppo, gli educatori, i formatori, il nucleo di prossimità, i ragazzi…
Ho conosciuto molti ragazzi in questi anni: molti sono migliori di quello che vogliono apparire. Ho visto degli insuccessi, qualche bel successo, molto disagio, diverse “belle” persone, esperienze da raccontare.
Due persone mi vengono subito in mente: una formatrice eccezionale, Claudia Mazzucato, che ho conosciuto all’inizio del mio percorso, pacata, disponibile, preparatissima, mi ha motivato subito a saperne di più e a lavorare al Progetto.
E poi un ragazzo al quale ho fatto da tutor, spaccone, aria da bullo, situazione famigliare e scolastica difficilissima, denuncia per atti di bullismo…. Quando lo conosco mi appare indifferente, apatico, insofferente poi a poco a poco si scioglie, si affeziona ai bambini, racconta, si apre, riusciamo a capirci, dentro la scorza dura che la vita gli ha costruito intorno si rivela un ragazzo buono, pieno di attenzioni per tutti, sensibile, magari questo percorso è riuscito davvero a farlo crescere.
ASIA MOUNSABI RACCONTA… “LA RISCOPERTA DELLA BELLEZZA DEI LEGAMI”
Aver rivestito il ruolo di tutor all’interno del progetto di Giustizia riparativa di ASAI, ha segnato un punto di svolta e maturazione particolarmente importante. Ricordo di aver provato un iniziale timore all’idea di diventare tutor, mi interrogavo circa la difficoltà nel comprendere appieno il termine “giustizia” e mi chiedevo cosa significasse davvero per me.
Spesso ho l’impressione che la parola giustizia sia usata in una prospettiva distorta, intendendo con essa la necessità di riparare un torto subito cercando di infliggere altra sofferenza, un modo per sanare il dolore con altro dolore. È giusto pensare che nella sofferenza di un altro essere umano possano ristabilirsi i disequilibri creati da un crimine?
Spesso il concetto di giustizia retributiva si rivela poco fecondo, non crea nuovi significati, al contrario è spesso un mezzo per l’inasprimento dell’odio e l’intolleranza nella comunità. La vera giustizia dovrebbe fondarsi su ideali e su valori etici da usare come guida nella nostra quotidianità, sul rispetto dei diritti E delle alterità che ogni giorno ci consentono di dare valore alla relazione con l’altro. È per tale ragione che il crimine risulta intollerabile, proprio perché lede la possibilità di riporre fiducia negli individui con cui condividiamo il nostro contesto sociale.
Il concetto di giustizia riparativa, dunque, consente di comprendere come un reato possa essere superato andando a lavorare sulla relazione umana che è stata intaccata e sul suo auspicabile recupero, attraverso il veicolo di azioni positive, creative e costruttive che dovrebbero sostituirsi allo sterile ideale della punizione. Infatti la volontà di punire spesso rimane fine a se stessa e non porta alla consapevolezza circa l’importanza dei valori e delle norme che regolano la civile e armonica convivenza all’interno della comunità.
Dobbiamo recuperare uno sguardo verso il futuro e non vivere tentando di sfogare nel presente un semplice desiderio di vendetta, secondo la spiacevole e ahimè ben nota massima “dell’occhio per occhio, dente per dente”.
Inoltre la giustizia riparativa ci parla della necessità di rispettare i bisogni del reo e della vittima, sottolinea l’importanza di intraprendere un percorso di consapevolezza e di riflessione prima di poter giungere al momento della ricomposizione, della riparazione dello strappo relazionale tra due esseri umani. Il danno è astratto e indeterminato ma la consapevolezza del dolore di un altro essere umano ci può riportare a un piano di realtà dove azioni prosociali e altruistiche possono fare la differenza, possono sanare il danno.
L’esperienza come tutor in ASAI mi ha consentito di mettere a frutto tali pensieri, di riscoprire la bellezza e l’importanza di un legame che possa portare all’elaborazione e comprensione di vissuti di rabbia ed alla lenta e progressiva apertura verso l’altro. Durante la mia esperienza ho avuto modo di seguire una vittima nel suo percorso, naturalmente non con l’obiettivo di una rieducazione, ma con la meta della riparazione di un rapporto di fiducia e con la prospettiva di poter comprendere le dinamiche che possono portare ad assistere alla violazione dei propri diritti.
Ho compreso e tastato con mano l’importanza del tempo che ogni alleanza richiede e la necessità della vicinanza di qualcuno che possa disporsi a un ascolto attento e intriso di cura, portando a consapevolezza il fatto che anche il solo ascolto di una vicenda sofferta può essere di aiuto nel percorso di elaborazione e di risanamento di un torto. Spesso è necessario avere diretta esperienza della netta differenza tra le diverse prospettive i diversi significati che il termine giustizia porta con sé, l’esperienza in ASAI acquisisce per tale ragione un valore inestimabile.
FRANCESCA GALLO RACCONTA… “CHE COS’È LA GIUSTIZIA? DA GOOGLE ALLA MIA ESPERIENZA SUL CAMPO”
“Quale di queste immagini rappresenta per voi la giustizia? E perché?”. Venti paia di occhi tredicenni vagano per la classe evitando il mio sguardo, evitando di rispondere per primi. Aspettando che il secchione di turno li salvi da questo silenzio. Oppure urlano stupidaggini e poi si guardano intorno compiaciuti aspettando le risatine dei compagni, che immancabilmente arrivano. Momento di gloria. Qualcun altro invece sta in silenzio, ma un silenzio diverso da quello di prima, un silenzio da pugno sotto il mento, da cervello che fuma. Poi ti si avvicinano e ti danno la loro opinione. “Io scelgo quella bilancia lì, che è il simbolo di Forum, perché per me la giustizia significa giudicare se quello che ha fatto qualcuno è giusto o sbagliato, per capire se ha torto o ragione”. E da lì parte il flusso.
“Ma no meglio il semaforo, perché c’è il rosso che è quando sbagli, il verde quando fai giusto, e poi c’è anche l’arancione, insomma una via di mezzo”. “Io scelgo quella in cui c’è un gruppo di ragazzi che parlano e sembrano discutere, perché ragionano insieme. Tra di loro poi c’è anche un ragazzo nero, e per me giustizia è anche non avere pregiudizi”. “A me piace l’incrocio stradale, perché significa che ognuno può scegliere la propria strada, che può essere buona o brutta”.
Mi chiamo Francesca Gallo e sono stata volontaria presso ASAI. Io mi sono inserita nel progetto di giustizia riparativa, nel ruolo di tutor, per poter seguire vittime e minorenni che hanno commesso reati, portando avanti percorsi che intendono promuovere la riparazione del danno da parte dell’offensore, l’incontro (protetto e guidato) tra vittima e offensore, oltre al sostegno psicologico e sociale alla vittima. Tutto questo comporta anche un vantaggio per il sistema penale, che risparmia in termini di tempo e risorse. Il progetto non si limita a trovare risposte a fatti avvenuti, ma agisce anche nell’ambito della prevenzione, portando nelle scuole medie e superiori attività che lavorano sulla consapevolezza delle proprie emozioni e modalità di reazione di fronte al conflitto, sul sentimento della fiducia e del suo recupero quando viene infranta, e sull’interrogarsi circa i significati attribuiti al concetto di giustizia.
Ecco spiegata la scena iniziale. Questa era in realtà l’attività che più mi metteva in crisi, per il semplice fatto che mi sentivo un po’ ipocrita a voler trasmettere il significato di un concetto che sfuggiva a me per prima. Cos’è la giustizia? Da brava (quasi) nativa digitale, per prima cosa ho cercato su Google “giustizia definizione” e aperto la pagina della Treccani. Le prime righe dicono questo: “Virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge”. Prosegue poi citando la Chiesa, che identifica Dio come massimo possessore di giustizia, e ricordando come talvolta per la religione cristiana vi sia una sovrapposizione tra la giustizia divina e il concetto di punizione. La definizione va avanti, ma già da queste parole si possono ricavare riflessioni interessanti. “Ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge”. Cosa mi è dovuto secondo la legge? Questo è relativamente facile, basta leggere i vari codici, magari facendoseli spiegare da qualcuno che è in grado di decifrarli. Ma cosa mi è dovuto secondo la ragione? E se questa indefinita ragione si muove in direzione opposta a quanto dettato dalla legge? Del resto nella definizione ad essere citata per prima è proprio lei, la “ragione”. Questi interrogativi non sono nuovi, e non sono solo miei. È forse quanto cercavano di dirci molti dei ragazzi con cui abbiamo svolto le attività a scuola. Mi spiego meglio.
Il secondo incontro prevede la visione, e poi la discussione, di un cortometraggio che si può trovare anche su YouTube, cercando “Stella di Gabriele Salvatores”. Inizia con la scena di una mamma appartenente a un ceto sociale svantaggiato, che ha poco da offrire alla figlia, e allora tenta di rubare un giocattolo che sa essere di grande valore per la bambina. Ad essere centrali nel nostro lavoro sono le scene successive, che non svelerò se qualcuno volesse vederlo, ma spesso le classi portavano la discussione su questo momento iniziale. Il personaggio preferito era di gran lunga la madre, che, almeno visivamente, non compare più per tutto il filmato. È curioso come un personaggio che occupa uno spazio scenico marginale rimanga in realtà così impresso. E il motivo è proprio connesso al senso che danno alla giustizia questi ragazzi. La madre piace perché fa di tutto per la bambina, perché mette al primo posto l’amore per la figlia, prima ancora che sé stessa. Quindi il suo gesto è giustificato, è giusto. È ingiusta, infame, invece la donna che avvisa il negoziante del furto, e stronzo il negoziante, perché se non avesse inseguito la madre per strada lei non avrebbe fatto l’incidente. “Sì ma se qualcuno mi fotte qualcosa di mio lo ammazzo”. “Allora lui poteva avere anche ragione, quindi la peggiore rimane la signora che fa la spia”. “E ma metti che era una sua amica? Tu non avvertiresti un tuo amico se qualcuno gli fotte la roba?”. Parte il dibattito e si fa acceso, a confermare gli interventi precedenti, a confermare che non c’è solo rosso o verde, ma esiste anche un arancione, e che giustizia è anche discussione. Ma una soluzione finale che accontenti tutti non si trova. Un po’ di torto e un po’ di ragione si vede da tutte le parti. Interrogarsi sulla giustizia non fa che spalancare nuove domande. Porta a chiedersi cose del tipo: cosa spinge una persona a commettere certi reati? Perché alcune persone si comportano in certi modi? Se uno commette un crimine per ragioni che troviamo sensate, dobbiamo comunque punirlo? La punizione è l’unica soluzione? Cosa si può fare se non sembra esserci la totale ragione da un lato e il totale torto dall’altro?
Si può allora parlare di Giustizia riparativa. Una giustizia che vede nella riparazione del danno provocato una via tramite cui riallacciare rapporti di fiducia perduti. Una via che consente di vedere sé stessi non solo come dei mostri o dei “bambini cattivi” (nel caso di minori), ma di ripensarsi anche alla luce di altre identità, di persone in grado di rimediare ai casini commessi, persone che sanno prendersi le proprie responsabilità, che sanno fare e sanno dare.
I percorsi promossi da ASAI puntano infatti ad aiutare i ragazzi a trovare i propri punti di forza, le proprie risorse, e a mettersi in gioco in situazioni in cui hanno dei ruoli di responsabilità. Molti di questi ragazzi infatti, durante il loro percorso, partecipano ai doposcuola nelle varie sedi dell’associazione, aiutando ragazzini più piccoli nei compiti e nelle attività di laboratorio. In questo modo mettono in campo la loro parte costruttiva e responsabile, ricevendo poi la gratificazione di aver partecipato ai buoni risultati dei bambini che seguivano, oppure di essere stati in grado di instaurare una buona relazione con loro. Assumere identità, già presenti ma un po’ intorpidite, per svilupparle, rafforzarle, e vedere sé stessi anche attraverso questa luce. Un enorme lavoro in cui la riparazione e la restituzione sociale hanno significato non solo per chi ha commesso il danno, ma anche per la vittima, che può tornare ad avere un briciolo di fiducia in più nel mondo, perduta nel momento in cui ha subito un reato.
Questa è la teoria. Poi c’è la pratica. In quanto tutor, ho avuto a che fare con diversi ragazzi che hanno commesso vari reati. Ancora una volta, ad affollare la mia mente erano tante domande e poche risposte, tante perplessità sulla reale efficacia del percorso, forti sensi di inadeguatezza. Frustrazione, senso di impotenza, di incapacità ad entrare davvero in contatto con il ragazzo. Non sapere che pesci pigliare di fronte a chi sta muto e risponde a monosillabi, ma anche di fronte a chi ti stordisce di parole ma non sta dicendo nulla per davvero.
C’è una relazione da scrivere alla fine di ogni percorso, che diventa un momento di riflessione guidata, dal momento che anche se è scriverla è il ragazzo, lo fa con l’aiuto del tutor. Uno dei punti da toccare riguarda le abilità che il ragazzo sente di possedere e di aver utilizzato durante quest’esperienza. Mi ha colpito molto l’agitazione che si è impossessata di Luca (nome fittizio) di fronte a questa domanda. Abilità? Mie? Vuoto totale. Gli ho indicato dei precisi momenti in cui lui si è mostrato capace di risolvere delle situazioni. Allora ho capito finalmente il mio ruolo di tutor.
Un’esperienza di questo tipo, che costituisce un elemento di novità per molti di questi ragazzi, necessita di due cose, in realtà connesse tra di loro: non sentirsi soli e potersi confrontare. Poterne parlare, osservare insieme ad un’altra persona cosa sta succedendo dentro e fuori da noi, diventa uno step fondamentale verso una maggiore consapevolezza e soprattutto verso la possibilità di vivere il percorso di giustizia riparativa come un momento tutto sommato positivo.
Le pratiche di giustizia riparativa non sono soluzioni facili e immediate. Sono strade tortuose infestate dai fantasmi del dubbio. Niente di più lontano da una redenzione che ha del divino, o dal trasformare una persona in un essere angelico.
Nel caso dei percorsi proposti da ASAI, perlomeno per quanto mi riguarda, i ragazzi rimangono esattamente chi sono. Hanno però spunti e strumenti in più per riflettere su di sé, sul valore delle conseguenze, sui sentimenti dell’altro e non solo sui propri. E non si tratta di qualcosa che rimane lì, appoggiato su una mensola della mente a prendere polvere. Ogni percorso prevede, con il consenso di tutti i partecipanti, l’incontro finale tra vittima e autore di reato e le rispettive persone di supporto, che tendenzialmente, essendo minori, sono i genitori. Si tratta di un momento di alta densità emotiva, a volte si piange, a volte si sorride. Spesso i ragazzi, dopo un primo momento di nervosismo, sono in grado di sfruttare questa situazione come occasione per esprimersi, per tirar fuori qualcosa che era schiacciato giù. Il confronto con i propri genitori è spesso un momento importante, in cui un legame che era entrato in crisi trova un suo nuovo equilibrio.
Le pratiche di giustizia riparativa non sono soluzioni magiche, ma permettono di vedere il crimine sotto angolature diverse, promuovere un confronto, aumentare le domande invece che le risposte. Per questo portano con sé una complessità che non garantisce un risultato positivo certo. Non sempre si impara qualcosa, non sempre si migliora. Per quanto riguarda il ruolo del tutor, bisogna saper accettare fallimenti e frustrazioni.
Quella della giustizia riparativa è più che altro una visione, una prospettiva. Studiarla, conoscerla, diffonderla, potrà permettere un miglioramento delle pratiche già in atto e lo sviluppo di nuove, così da offrire una modalità alternativa di gestione del conflitto che potrebbe essere più efficace in termini di recidiva e costi sociali, ma anche più umana rispetto ad una sterile punizione.